Litostroto: il silenzio di chi è condannato
Litostroto: il silenzio di chi è
condannato
Omelia di fra Paolo Messina - Peregrinazione al Litostroto (20 marzo 2024)
Carissime sorelle e carissimi fratelli,
proviamo un attimo a stare in silenzio, ad abbassare le nostre voci, anche quelle interiori. Sentite il pianto di Kfir Bibas, il piccolo di appena un anno, rapito il 7 ottobre dai miliziani di Hamas? Riuscite a percepire il pianto di Jamil, lo chiamerò così, nato in una tendopoli a Gaza lo scorso gennaio, quarto figlio di una donna rimasta vedova il mese precedente? Sentite le urla di Tatiana e di tutti gli altri bambini ucraini, che da più di due anni sono costretti a cercare rifugio al suono delle sirene anti-aeree? No, non sentiamo il loro pianto, le loro urla, la loro fatica. È il silenzio di tanti innocenti condannati ingiustamente, è il silenzio che Gesù ci ricorda in questo luogo: lui innocente, lui giusto, lui condannato per l’opportunismo politico di pochi.
È il silenzio del servo del Signore, che abbiamo ascoltato nella prima lettura. In questa pagina non si sente la sua voce, ma solo un racconto su di lui e sulle sofferenze subite. Già la descrizione iniziale rivela la fatica di ogni uomo nel volgere il suo sguardo, la sua attenzione su situazioni come quella descritta. Quante volte, di fronte a quelle condizioni, ci copriamo la faccia? Quanta fatica facciamo a stare dietro a certi racconti. Vogliamo andare oltre, cancellare da davanti a noi quella crudeltà, fino a volercene dimenticare, fino a rimuovere dalla nostra memoria il volto di quel giusto sofferente, senza forma, né maestà, né splendore.
Eppure, quest’uomo dal quale vogliamo prendere le distanze è legato a noi. Il testo parla di “nostre” sofferenze, “nostri” dolori, “nostre” colpe, “nostri” peccati, ma anche di “nostra” salvezza e “nostra” guarigione (Is 53,4-5). Il profeta ci mette in guardia dal pensare che la condanna di un innocente, che la pena degli ultimi e degli indifesi non ci riguardi. Non possiamo voltarci dall’altra parte, non possiamo far finta di nulla, avvallando atteggiamenti di omertà, che tendono a nascondere e ad occultare il male intorno a noi. La storia, in fondo, ce lo ha insegnato più volte: quando gli uomini e le donne fanno finta di non vedere l’ingiusta condanna dell’innocente, la deportazione forzata dell’indifeso, la migrazione senza speranza da guerre, carestie, ne nascono solo dolore, sofferenza e morte.
Di quel servo sofferente, Isaia per ben due volte sottolinea che non apriva la sua bocca. Durante tutti i maltrattamenti subiti, l’umiliazione ricevuta, egli agisce come un muto, uno che non può parlare, anzi nel suo caso come uno che decide di non parlare. Perché questo silenzio? Perché non ribadire la propria innocenza? Perché non gridarla al mondo? Credo che possiamo leggere tale silenzio da due prospettive, contrapposte tra loro, ma accomunate dal senso di impotenza di fronte al dilagare di una violenza così inaudita. Da un lato il silenzio può essere rassegnazione, rinuncia ad ogni lotta, ad ogni pretesa di giustizia. Dall’altro questo silenzio è consapevolezza di una giustizia più grande, di una protezione e di una custodia da parte di Dio, la certezza che quanto più ci si mette nelle mani di Dio, tanto più Egli sarà capace di compiere la Sua volontà e di realizzare la Sua salvezza.
Il segno di questa salvezza è descritto nel Vangelo con l’iscrizione su cui si sofferma Giovanni: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”. Pilato avrebbe potuto scrivere che Gesù era un malfattore, secondo l’accusa dei capi dei Giudei (Gv 18,30). Invece, decide di incidere su quella tavoletta ciò che egli in prima persona ha riconosciuto in Gesù, quel titolo con il quale l’aveva presentato alla folla (Gv 18,33.39). Pilato, infatti, nei suoi dialoghi con Gesù non lo chiama mai per nome, ma si rivolge a lui come il re dei Giudei e lo indica ai giudei in questo modo. Ma quando, poi, Pilato chiede a Gesù: “Di dove sei tu?” (Gv 19,9), non riceve da lui alcuna risposta. Nei dialoghi con Gesù, Pilato percepisce tutta l’autorevolezza di quel condannato e riassume in quell’iscrizione ciò che di Gesù ha compreso. Pilato, giudice di quel processo, massima autorità dell’impero nella Gerusalemme di quel tempo, esprime in qualche modo il suo verdetto. Quattro semplici parole in ebraico, latino e greco per dichiarare Gesù re del suo popolo, anche dalla croce.
Yeshua Ha-Nozri Melek Ha-Yehudim: perché anche i giudei potessero riconoscere chi era Gesù. Nonostante il rifiuto loro e nostro, Gesù è e rimane il re della nostra esistenza. Nonostante il loro e il nostro rifiuto, in quel volto sofferente siamo chiamati a riconoscere colui che ha preso su di sé i nostri peccati.
Iesus Nazarenus Rex Iudeorum: perché sia i romani, e in special modo quei soldati sotto la croce, ma anche oggi tutti noi, possiamo comprendere le conseguenze di un potere crudele, incapace di farsi promotore di una giustizia che giudica il colpevole e l’innocente senza parzialità.
Iēsoûs ho Nazōraîos o Basileùs tôn Ioudaíōn: perché, nell’espressione di quella che allora era una lingua conosciuta, ogni uomo e ogni donna in ogni parte del mondo potesse sapere chi fosse Gesù. Credenti e non credenti, anche oggi, possono riconoscersi nella sua sofferenza, possono guardare a quel giusto crocifisso come a uno che ha condiviso lo stesso spietato destino, vittima silenziosa di chi domina i popoli senza giustizia.
Davanti al silenzio di Gesù,dalla croce quella scritta parla, urla, grida forte ciò che quegli uomini non hanno voluto vedere prima. Quella scritta dà fastidio ai capi dei Giudei, tanto che tornano da Pilato a chiedere che la cambi. Quella scritta dà fastidio a noi perché ci ricorda che a volte agiamo come Pilato davanti agli innocenti oppressi dei nostri giorni, e come il procuratore romano ci giriamo dall’altra parte. Quella scritta ci dà fastidio, perché come i capi dei Giudei, a volte inventiamo scuse per non soccorrere le vittime innocenti dei nostri tempi.
“Non possiamo accogliere tutti”; “si sono messi in mare in condizioni pericolose sapendo a cosa andavano incontro”; “il carico residuale”, così un ministro di un paese occidentale definì i migranti fermi su una nave: parole che a volte ci indignano, ma altre volte ci lasciano completamente indifferenti, perché abituati troppo spesso a pensare solo i nostri interessi e ai nostri vantaggi.
Quel silenzio dell’innocente ingiustamente condannato ci pone davanti a una scelta: agire per lui, gridare in sua difesa, o volgere lo sguardo altrove, facendo finta di nulla. Non c’è una via di mezzo, ancora oggi da questo luogo Gesù ci invita a scegliere. E tu che farai?
Fonte: custodia.org